Mi chiamo Daniele, abito in città, a Roma, ad una distanza calcolabile in un range che va da un minimo di 22 ad un massimo di 15,000 kilometri dal più vicino campo coltivato, dal luogo di raccolta cioè, di alcuni ortaggi con cui alle volte mi nutro. Ho vaghe reminescenze della campagna, sulla natura in genere e sul ciclo della creazione del cibo in particolare.
Le mie conoscenze sono di livello scolastico, e rimembranze delle visite ai nonni materni contadini. Nel supermercato io ci compro idealmente solo pochi prodotti. Ho detto appositamente idealmente perchè anche se entro in un supermercato per acquistare una cosa sola, ad esempio del burro, difficilmente tornerò a casa senza almeno una busta piena di qualsiasi cosa inutile mi abbia affascinato, a eccezione del burro. Non pensiate sia una questione strettamente personale non ho qualche disfunzione da orientamento, ne soffro di schizzofrenia, la mia è piuttosto la consapevolezza di essermi arreso. Non ricordo più quando la mia cognizione di individuo pensante, libero di comprare, ha cozzato contro la cruda realtà di essere un consumatore di prodotti indotti dalle leggi di mercato, quando cioè sono diventati i prodotti e le relative pubblicità a dettare le mie regole di vita. Ho provato inizialmente e blandamente a difendermi. Non consumo tecnologia. Non posseggo il decoder, il mio cellulare è vecchio ed economico (definito un archeo_telefonino), la macchina è iscritta all'ASI (ato storica) ed ha percorso oltre duecentoquarantamila kilometri, acquisto musica in vinile usato, la mia tecnologia casalinga è prossima all'avvento del digitale ma è ancora analogica, cioè uso la Moka.
Non ho nulla di personale contro il supermercato, che ha ridotto a vantaggio del consumatore la proporzione tra costi dei beni e stipendio medio, e mi ha inoltre creato sotto casa un gigantesco parcheggio gratuito. È piacevole avere a disposizione centinaia di prodotti in una unica soluzione di vendita. Ciò non toglie che il supermercato è un luogo asfissiante dove l'acquisto diventa meta-natura ed'una eventuale riflessione sulle modalità deliranti d'acquisto una teoria proto-eretica. Ho un dei buoni motivi per non fare la spesa solo nei supermercati: preferisco comprare le verdure fresche dai vignaioli, anche laddove, non credo siano biologiche, ne tantomeno sterili, ma le trovo saporite, spesso economiche, altre volte freschissime. So che loro ci campano e questo mi inorgoglisse, sono per l'autarchia e penso in fondo che se li aiuto a campare magari loro un giorno compreranno qualcosa da me. Non amo acquistare la carne imbustata nel piatto di polisitrolo, ne consegue che frequento dei piccoli spacciatori di cibo toccato da mani umane. I viganioli e i macelleai mi ringraziano affibbiandomi quantità di roba doppia se non tripla del mio fabbisogno settimanale, del come e del perchè non mi capacito, eppure sono obbligato a dare cene per smaltire l'eccesso nel freezer. Ho così dovuto imparare a cucinare e anche comprare un freezer più grande. La difficoltà di entrare in un supermercato, me la sono spiegata con il fatto che non riesco più a vedere una connessione logica tra il cibo e la tavola. La necessità, la piacevolezza dell'oggetto “alimento” non derivano più dalla fonte prima “la natura” l'agreste campo, sono indotti, invece, dalla figura rappresentata sulla confezione. Quindi l'acquisto del prodotto è indotto dall'immagine che questi ci mostra. Colorata, vivace, magnifica strasbordante di promesse. Com'è ovvio, l'immagine è eterea, fallace, apparente, cioè non si trasforma mai in realtà, salvo nel momento del conto, cioè nella commisurazione economica dell'acquisto (la fila alle casse). È la delusione di una promessa non mantenuta di un mondo migliore, dove la panna è perfettamente bianca, l'hamburger non brucia mai, dove la cucina necessita di quattro minuti attenzione al massimo, dove si è indotti a pensare che sia inutile mangiare e che bisogna dedicarsi all'edonismo e al divenire più belli e pimpanti, che invece cozza con la cruda realtà di prodotti creati ad arte pregni di sofisticazioni, di immagini e di rimandi esotici, che si materializzano in un piatto di portata precotto in perfetto stile “mensa aziendale e/o ospedaliera”, che ci toglie uno dei piaceri della vita: il desco e la compagnia.
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