mercoledì 26 marzo 2014

Joyce che di osterie se ne intendeva

LIBERO secondo Claudio Magris 
dal Corriere della Sera 2009. 




Joyce, che di osterie se ne intendeva, amava molto quelle triestine, dove spesso la sera beveva più del giusto e arricchiva la sua familiarità con il fluire caldo e impuro della vita, ritrovandolo anche nel farfugliare degli ubriachi e in quella corposa espressione dialettale che sarebbe più tardi riaffiorata nella sua pagina, come per esempio il Conte dalle braghe corte nel Finnegans Wake.



L’uomo, secondo un vecchio detto, è un viandante sulla terra e ogni tanto ama sostare in pace, sedersi in una chiesa o in un’osteria, che a diverso titolo offrono pane e vino e non domandano niente a chi entra, ma lo lasciano riprender fiato. Anche un’osteria può essere un piccolo presepe in cui sostare dopo il monotono e assillante errare della giornata. Una di queste è certo l’amabile locanda in via della Risorta, a pochi passi dalla casa di Joyce. La piccola strada che sale ripida verso San Giusto ricorda, nella sua appartata malinconia, certe vie di Praga, dimesse e misteriose. 


Il proprietario, il mitico Libero ovvero Slobodan, croato italianizzato e la cui famiglia è a sua volta di lontana origine italiana, sarebbe probabilmente imbarazzato se gli si chiedesse di definire univocamente la sua nazionalità. Gli anni di Joyce sono lontani, ma il genius loci si è preoccupato di stabilire una continuità epica con il passato joyciano di quelle strade. Narratore sempre in vena di commentare i bislacchi avvenimenti del giorno, Libero parla una lingua che, sia per le espressioni usate sia per la voce che si mangia le parole in un borbottio progressivamente indistinto, sembra un monologo joyciano, altrettanto difficilmente comprensibile, anche se alla fine ci si accorge di aver capito quasi tutto e comunque di aver afferrato il senso di quel mormorio.


L’osteria ha due stanze; in una, quella dove ci sono anche il banco di mescita e la piccola cucina, c’è pure, sovrastante i tavoli dove si gioca a carte, una finta televisione, una specie di scatolone illuminato che simula uno schermo. Ma è nell’altra saletta, sopraelevata di qualche gradino, insieme desolata e accogliente con le sue panche e pareti di legno, che Libero si siede insieme alla gente con cui vuole conversare, mandando via altri clienti e invitandoli ad andare a bere una birra da un’altra parte, tanto. aggiunge, è ugualmente buona . 

Libero ha avuto una vita varia e colorita, al di qua e al di là della frontiera fra l’Italia e l’ex Jugoslavia, tuttavia non ama parlare di sé, bensì dei progetti e delle invenzioni cui si è dedicato. So bene, mi ha detto una volta nel suo linguaggio irripetibile che ogni traduzione appiattisce, che Lei vorrebbe sentire qualcosa della mia vita, ma non mi interessa, è il mondo che è interessante, non la mia storia. Così, del difficile periodo in Croazia, durante il quale aveva avuto la bella idea, mentre faceva il servizio militare nell’esercito jugoslavo in un momento di tensione politica con l’Italia, di chiedere l’opzione per la cittadinanza italiana. Non evoca i momenti più avventurosi. È libero, come vuole il suo nome, perché non si preoccupa di se stesso ed è quindi preservato dalle ansie e dalle fobie di chi è prigioniero del proprio io. 

Come non è imbarazzato, nonostante la sua età non più verde, quando si tratta di mettere alla porta gente molesta o attaccabrighe, non rimane titubante dinanzi alla realtà . Nella sua osteria si è a casa e se dovesse un giorno chiudere ci si sentirebbe un po’ sfrattati; è uno di quei luoghi in cui si lasciano pezzi della propria persona, come si lascia un ombrello in un caffè, e perdere quei luoghi è perdere un po’ se stessi. Là dentro si sta bene, ma fuori è buio e freddo e, a differenza di quella notte di Natale a Betlemme, non si sentono cori di angeli che annunzino gloria a Dio nei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà. La quiete della strada dove si apre l’osteria fa presto a diventare una deserta e vuota solitudine. E allora anche un canto di santi bevitori può’ essere già qualcosa, un’accettabile supplenza del coro degli angeli”.   

mercoledì 19 marzo 2014

Godzi e FaHrenheit 451.

Godzilla sogna. 
In sogno gli si presenta Dio, tutto coperto di squame, sputando fuoco. Dice a Godzilla che si vergogna di lui. Dice che dovrebbe fare di meglio. 
Godzilla si sveglia madido di sudore.
Nella stanza non c'è nessuno.
Godzilla si sente in colpa. Ha vaghi ricordi di essersi svegliato e di essere uscito a distruggere una parte della città. S'è ubriacato come una zucchina, ma non riesce a ricordare tatto quel che ha fatto. 

Forse lo leggerà sui giornali. Si accorge di puzzare di legna bruciata e plastica fusa. C'è roba appiccicosa tra i suoi alluci, e ha il vago sospetto che non si tratti di sapone.
Si vuole ammazzare. Va a cercare la sua pistola, ma è troppo ubriaco per trovarla. Sviene sul pavimento. Questa volta sogna il diavolo. Somiglia a Dio, solo che ha un sopracciglio che gli passa su entrambi gli occhi. Il diavolo dice che è venuto a prendere Godzilla.
Godzilla si lamenta e lotta. Sogna di alzarsi e di tirare pugni al diavolo, di soffiare inutilmente fuoco contro di lui.
Il giorno dopo Godzilla si alza tardi, devastato dalla sbronza. Ricorda il sogno. Telefona alla fonderia e si dà malato. Passa la maggior parte della giornata a dormire. La sera, legge quello che ha combinato sui giornali. Ha fatto dei danni seri. Ha incenerito una grossa area della città. C'è una foto molto nitida di lui che stacca la testa di una donna a morsi.
Quella sera riceve una chiamata dal direttore della fabbrica. Il direttore ha letto il giornale. Dice a Godzilla che è licenziato.
Godzilla in riabilitazione Joe.  R.  Lansdale 




“Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato,  in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l’albero,  o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là. Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos’altro che porti poi la nostra impronta. La differenza tra l’uomo che si limita a tosare un prato e un vero giardiniere, sta nel tocco, diceva.


Quello che sega il fieno poteva anche non esserci stato, su quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà  per tutta una vita”. 

Offri al popolo gare che si possano vincere ricordando le parole di canzoni molto popolari, o il nome delle capitali dei vari Stati dell'Unione o la quantità di grano che lo Iowa ha prodotto l'anno passato.
Riempi i loro crani di dati non combustibili, imbottiscili di "fatti" al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri d'essere "veramente bene informati".
Dopo di che avranno la certezza di pensare, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno.
E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi.
Non dar loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia affinché possano pescare con questi ami fatti ch'è meglio restino dove si trovano.

Con ami simili, pescheranno la malinconia e la tristezza.

                                     Fahrenheit 451 di Ray Bradbury