lunedì 26 maggio 2014

Questa non è una ricetta è una sfida. (che io ho perso)

Non sono abituato ai grandi alberghi tanto meno Roma, dove vivo e salvo degustazioni non ho motivo di andare. Ma nella mia reserche del risotto ho l'occasione di un incontro con uno chef milanese non posso mancare.
Il risotto per un Milanese è il re dei Re della cucina quindi il “Risotto” tra virgolette, mai un Milanese dirà un “risotto alla Milanese”, sarà semplicemente “il Risotto”. Gli chiederò a bruciapelo la ricetta esatta. La Sua, tra le mille ricette e versioni, che variano credo anche tra quartiere e quartiere di Milano.
Ma è noto che i cuochi sono dispettosi e amano più le sfide che la prassi. Questo in particolare.
Procediamo con ordine. Con un gruppo di allegri buontemponi mi preparo ad incontrare nel suo nuovo tempio di Roma Umberto Vezzoli, bergamasco classe 1960 ma Milanese di adozione lo Chef executive del Boscolo.
Lo incontro a Roma nell'albergo di piazza Esedra (per i non romani piazza della repubblica). Come molti sanno è difficile che lo chef sia presente in cucina o prepari realmente un piatto in prima persona, sono rarità per quelli che fanno per i redattori delle guide come la Michelin, e io non sono tra questi, o per regnanti o simili, idem. Invece Lo chef ci accoglie di persona, siamo solo in dodici. Una setta ? E sorpresa delle sorprese cucina lui davanti a noi con un comis che impiatta. Quattro fuochi a induzione. Un brodo già fatto e gli ospiti seduti su sgabelli davanti a lui (“molto giapponese- penso”)
Giotta occasione con lo chef a un metro che beve e mangia con noi.

Perfetta occasione per la domanda delle domande


Io: “Vezzoli cortesemente cosa ne pensa del risotto ?”.
V. : “lo adoro è un piatto a cui sono più legato, dai ricordi più teneri”
Io: un mio amico Milanese sostiene che è anche la cosa che all'estero non sanno imitare ”
V.: “io ho lavorato sia in Francia, e anche in giappone, ho scoperto che hanno una profonda stima per la cucina italiana. Io poi tra Bergamo e Milano ovviamente sono molto attento al risotto, no, non credo che all'estero ci siano chef che ne comprendano le radici. Probabilmente il tuo amico aveva ragione.
Io: Quindi posso sperare di avere una versione del risotto alla milanese ?,
V: No, non è una questione in cui voglio entrare. Non sarebbe cortese per gli ospiti farò invece un riso in onore della romanità risotto alla Carbonara.

Fare la carbonara bene è tosta (difficile) per un romano, lasciate perdere quello che raccontano. Farla veramente bene: cioè cremosa fluida con una mantecatura adatta pretende una mano ed un occhio serio, figuratevi il risotto. Fare un risotto alla stessa maniera senza stracciare l'uovo è praticamente una missione impossibile ma tant'è Umberto Vezzoli c'è l'ha fatta, ed era superba.
Se volete cimentarvi vi do ora la ricetta mi raccomando che abbiate fatto pratica prima con i risotti in genere ed con lo spaghetto prima di servirla agli amici. È fondamentale. Finite la cottura della pasta con l'acqua come se fosse un risotto abituatevi a mantenere l'acqua di cottura da parte e mantecate il formaggio e l'uovo per la carbonara in maniera assolutamente perfetta.
Per il risotto, questo in particolare mi raccomando state attenti a tre cose.
La pentola deve avere un fondo molto spesso e il manico deve pesare quanto la padella al fine che non si sbilanci mai. Il brodo deve essere sempre molto caldo, quindi mantenetelo sul fuoco fino alla fine.
Il guanciale o barbozzo deve essere il più possibile rosa e non avere tracce di muffe o rancido. Che le uova siano fresche e il pecorino abbondante.
Ricordatevi che rispetto alla pasta il sale qui è dato dalla pancetta dal brodo e dal pecorino quindi non sono necessarie aggiunte. L'aglio o il peperoncino in alcuni casi sono anche sopra il guanciale e sono ammessi quindi state attenti.

Dosi per persona
60 gr. Di pancetta o barbozzo a persona.
125 gr. Di riso carnaroli o vialone nano
1 rosso e ½ Albume
un cucchiaio circa 20gr di olio d'oliva.
40/50 gr di formaggio Pecorino Romano grattugiato molto finemente.
Pepe a piacere

Preparazione
Filettare la pancetta /guanciale (quello che avete) inseritela nella padella quando l' olio è ben caldo (intorno agli 80 gradi).
Fermate la cottura, togliete la pancetta,
inserite nella stessa padella il riso e tostatelo fino a quando cambia colore circa 3/5 minuti,
iniziate a inserire il brodo lentamente cuocete a saltate per 10/12 minuti.

A parte
sbattete le uova un rosso per pers. e un albume ogni due,
dando volume con il formaggio e il pepe.

Quindi avete tre ciotole il formaggio. L'uovo sbattuto. La pancetta

Quando il riso è al dente inserite la pancetta il formaggio e un ultima mestolata di brodo tirate il liquido, spegnete la fiamma e calate l'uovo
girate o saltate come forsennati mantenendo sempre l'onda a costo di aggiungere brodo (a Vezzoli non è servito).
Impiattate e servite su piatti bollenti
se l'avete fatta bene una fetta di pancetta fritta come guarnizione.


Se l'avete sbagliata la prima volta non demordete è veramente un piatto difficile. Ci sarà un motivo perchè Lui ha la stella Michelin. E noi,no ?

La cucina del NEP e delle elezioni.

Le ricette di una volta : Bambino alla comunista.
  
In un un testo abbastanza raro di cucina socialista del 52 " Fedeli alla linea  Cuochi Cucine e Casalinghe Pasteggiano " 
Ho scovato dopo i vari Blinis i Pirojki, Vatrushki Bortsch. i Rybnaia solianka Zharenno i Parasiolnols, l'Amatriciana, i grechnievoi kasho i Kulibiac Pojarski una ricetta abbastanza rara. 
Quella su come si cucina un cattolico italiano.

Si prenda di notte, prima delle elezioni, dalla casa di devoto cattolico italiano un bambino da latte, non più pesante di sei chilogrammi, possibilmente grasso e biondo. Dopo avergli tolto il crocefisso dal collo, ancora caldo, va  pulito per bene da tutto ciò che e capitalismo. 

Incidete per bene dal bacino  ed evisceratelo in acqua calda a 60 gradi, non bollente, con un pizzico di bicarbonato. 
nella parte svuotata riempitelo con polpette di pollo lesso, panna acida, burro, latte e mollica di pane, dorate nel burro. 

Inseritelo ora in un tegame molto fondo mettendo su a fuoco basso un soffritto di : ghee, aglio, cipolla, chiodi di garofano, timo e paprika dolce, Qb.  

Cuocetelo lentamante a circa 80 gradi nel forno olandese direttamente nel suo grasso, per circa 60 minuti. Se non si è prodotta la crosticina, potete aggiugere  farina miele e senape e spennellare (portando per 5' la temperatura al massimo)  senza coperchio. 


A parte preparate della frutta candita meglio se ciliege e servite con salsa Smitana (a base di panna acida) e patate al burro. 

Il piatto così ottenuto è veramente gradevole anche se molto dolce. 
Come bevanda si consiglia vodka allungata con acqua fredda, o un buon tokai ungherese fresco o vino Moldavo. 
Ruttate e prosit.  

La settimana prossima Negri alla Lega, il BBQ  perfetto. (con variante K.K.K.) 

  

domenica 13 aprile 2014

Il risotto alla Bonarda o risotto della Malora.

Una ricetta ha poco senso, se non ha una storia, un ricordo.
Una sera di tanti anni fa un amico chef di un noto ristorante dei Parioli, Piggi definitosi “un Milanese Dop della bassa”, tra il terzo bicchiere e quello di troppo, mi chiese a bruciapelo: “Cosa distingue la cucina italiana dalle altre nel mondo?”. Pensai fosse facile, e dissi “Lo Spaghetto”; “No”- sorrise -“Si vede che sei un pirla, il riso, anzi il risotto. L'unica cosa che i cuochi internazionali non riusciranno mai a fare come un Italiano, è il risotto”.

Ci pensai durante la resaca della mattina dopo.(Una resaca se refiere a los síntomas desagradables que una persona experimenta después de tomar mucho alcohol) Sarà vera questa storia del risotto?. Come potevo sapere se è quello che diceva Pigi era vero?. Nei ristoranti non lo fanno volentieri il risotto, forse perché servono almeno 20 minuti per servirlo espresso. Siamo però il primo produttore al mondo con oltre 9 specie di riso superfino e tutti di alta qualità. Lo stesso Benjamin Franklin rubò i semi del Carnaroli per ripiantarli negli Stati Uniti d'America. Bisogna provarne uno vero per capire. Nei manuali di cucina il riso presenta cinque/sei modi diversi per prepararsi. Il risotto no. Ne ha uno solo. Nei menu internazionali non l'ho trovato mai. Forse ha ragione Piggi. Ecco il perché di questo amore per il Re della cucina Italica (ovvero quello che gli chef internazionali non saprebbero fare).
Il primo che vi racconto è un risotto alla Bonarda, o il “Risotto della Malora”. L'omaggio personale di Daniele Catozzo Oste e chef della “Osteria della Malora” a Mario Soldati (1906.1999), narratore, regista, scrittore e documentarista.
La ricetta e i suoi trucchi sono il meno, quello che in fondo la rende speciale sono la magia del momento, la compagnia a tavola, il cuore e l'amore del cuoco, la curiosità di chi l'assaggia, mancanti questi ingredienti potreste rimanere delusi.

Pavia. Passato il ponte coperto la strada si dirige verso le risaie di Arborio, Carnaroli e Baldo, a sinistra compare Borgo Ticino, il vecchio borgo. Passando il ponte coperto e la sua statua con la vedetta e mitragliatrice si arriva sino alla Bocciofila. Mi sono immaginato Mario Soldati e la sua Osteria con annesso campo di bocce. Eccolo li col sigaro mentre si beve una Bonarda. O un Pinot Spumante magari seduto a riva, a guardare le linee mosse del Ticino.

La mia idea di Pavia è esattamente questa: Spumanti, Pinot in bianco, Bonarda riso e rane in ordine sparso. Invece Massimo Marcotullio racconta che “il Ticino è come il Mississipi” e in fondo per lui “Pavia è una città che ha del Blues”. Se lo dice lui che è stato assessore alla cultura, e direttore dello stabile lo prendo per vero.

http://www.agrodolce.it/2014/04/12/il-risotto-dellosteria-della-malora

Mi lascio accompagnare da un'atmosfera: “il Blues pavese, Riso, rane, e Soldati che fuma il sigaro mentre gioca a bocce”. C'è una lieve nostalgia, colpa del freddo e di una lieve nebbiolina che sale.


Arriviamo all'Osteria della Malora. Daniele ci attende alla porta. E' un bell'ospite, ci fa accomodare, ci porge un bicchiere di vino (una Bonarda ferma) e ci mostra i segni sul muro, il livello delle esondazioni distinte per livello delle acque e annate, le mostra con orgoglio come fossero delle bottiglie da collezione, o cicatrici di lunghe battaglie. Questo spiega il nome “della Malora” ogni cinque sei anni va tutto sott'acqua. Daniele è nato nell'oltre Po, sposo della figlia dell'oste, dal 1985 è rimasto in cucina. Uno Chef per amore. Ci fa entrare in cucina, rabbocca i calici, “alla salute”. E inizia la preparazione.
Armatevi di una pentola con manico saldo, alta abbastanza da saltare il riso

Dosi consigliate
125 grammi di riso (Carnaroli nel caso) a testa.
1 salciccia (pavese a pasta da salame) senza pelle ogni due persone
1 spicchio di aglio
1 cipolla bianca
sale q.b. o pizzichi uno per persona.
una manciata di maggiorana fresca
una bottiglia di Bonarda vivace che non sappia di tappo.
(possibilmente svaporata a parte con chiodi di garofano e io ci metto anche una buccia di arancia, a gusto personale)
un litro e mezzo di brodo da ossa e verdure, caldo.

Scaldate con l'olio o se vi piace con lo strutto, la padella, a fuoco medio.
Aggiungete la carne di salciccia, aglio e cipolla.
Fate rosolare per 5 minuti senza bruciare, aggiungendo brodo.
Sfumate con un po di vino. Togliete l'aglio.
Saltate frequentemente o girate spesso.
Mettete il riso e il sale assieme e coprite con coperchio, asciugate e tostate il riso fino a quando non cambia colore. (Fuoco basso)
Assorbito per bene il grasso (il condimento) iniziate la cottura aggiungendo spesso il brodo molto caldo ad un massimo di tre quarti senza mai farlo bruciare. Sempre girando.


Dopo 10 minuti circa versate lentamente il vino fino a coprirlo completamente e fate asciugare fino a cottura ultimata 8/10 minuti circa.
Quando il riso risulta al dente aggiungete la maggiorana e toglietelo dal fuoco
Se vi riesce servitelo all'onda su piatto ben caldo.





Il risultato è un risotto rosso e profumato di floreale, con una lieve punta di acido, dovuta al vino. “Questo perché io non lo stempero” spiega Daniele, “queste raffinatezze sono successive al modo di mangiarlo della mia infanzia” e “normalmente lo faccio, ma lo preferisco rustico, come lo faceva mia madre“. Un bel riso davvero. Il mio primo risotto vero, alla maniera cara credo a Mario Soldati, Osteria con annesso il campo da bocce.







giovedì 10 aprile 2014

Dialogoi sui codici a barre


La difficoltà di entrare in un supermercato, me la sono spiegata con il fatto che non riesco più a vedere una connessione logica tra cibo e tavola. 
La necessità, la piacevolezza dell'oggetto “alimento” non derivano più dalla fonte prima “la natura” l'agreste campo, sono indotti, invece, dalla figura rappresentata sulla confezione. 
Quindi l'acquisto del prodotto è indotto dall'immagine che questi ci mostra. Colorata, vivace, magnifica strasbordante di promesse. 


Com'è ovvio, l'immagine è eterea, fallace, apparente, cioè non si trasforma mai in realtà, salvo nel momento del conto, cioè nella commisurazione economica dell'acquisto (la fila alle casse). È la delusione di una promessa non mantenuta di un mondo migliore, dove la panna è perfettamente bianca, l'hamburger non brucia mai, dove la cucina necessita di quattro minuti attenzione al massimo, dove si è indotti a pensare che sia inutile mangiare e che bisogna dedicarsi all'edonismo e al divenire più belli e pimpanti, che invece cozza con la cruda realtà di prodotti creati ad arte pregni di sofisticazioni, di immagini e di rimandi esotici, che si materializzano in un piatto di portata precotto in perfetto stile “mensa aziendale e/o ospedaliera”, che ci toglie uno dei piaceri della vita: il desco e la compagnia.

Un altro aspetto curioso del supermercato è la promiscuità delle merci, in una euforia di consumo convivono tranquillamente arredamento,cibo, piccola ferramenta, merceria, bicchieri, cassette per registratori audio/video, pane in cassetta e altro ancora. 

Tutti ordinati in file di 20 metri per due piuttosto anonime, salvo per una scritta che troneggia all'inizio della stessa, come per la statale: pasta km2, prossima uscita Biscotti, rallentare code nello scatolame, Dio c'è. 



Oggetti che, anche se trovano una degna giustificazione nel packaging, nascondono, se osservati con attenzione, un umanità degna del modello unico del ministero delle finanze. Portano sul retro etichettato tra i codici a barre, le scritte d'uso per lo più incomprensibili, minacciose per alcuni : e240, e330, leticina di soia, antiossidanti, riga f redditi da fabbricati, aromi naturali e no, e infine il fatidico “da consumarsi preferibilmente entro il” , ovviamente dall'altra parte. La data è spesso più vicina al Giubileo che alla tavola. 
In queste pile di merci io mi perdo dispero, mi confondo, dimentico cosa sono venuto a fare, cosa volevo in origine; rimango affascinato dalle tecniche di vendita, dimentico la provenienza dei prodotti esposti, la trasformazione che hanno subito di alcuni mi capita di non saperne neanche lo scopo pratico.

Rifletto. Trovo fantastico il fatto che ci nutriamo di Mais e dei suoi derivati, con odore e aroma di ammoniaca, di cui sono intrisi quasi tutti (l'85%) dei prodotti del banco, o con buste di insalata, tanto vicine alla fragranza della plastica da portarti a pensare di masticare le buste stesse, o delle puree in candido alluminio dal vago sapore di ospedale, dov'è la patata ?. Osservo il tetrapack, triste nel contenitore di latte UHT tutti, indipendentemente dalla marca, anonimi e insapori; il caffè rigorosamente “più buono”, ectoplasmi di tonni stressati che si tagliano con grissini, biscotti dalle forme di astronavi, missili e stelle, al sapore di crusca di cereali e di aloe Vera, ma raramente di biscotto. Le conseguenze di questa mancanza profonda di naturalezza fa sì che bambini di cinque anni credano che i polli abbiano quattro zampe. 
(N.b. il pollo è un bipede). 


Non avendo esseri umani con cui confrontarmi nel supermercato, nell'autostrada alimentare, dove il telefonino diverrà il prossimo telepass, dove nessuno ti risponde alla semplice domanda: che diavolo è la leticina di soia ?”. il cassiere casellante non è in grado di garantire che se fa schifo te lo cambiano. 

Ho parlato con gli oggetti nello scaffale. Ho dato del tu al barattolo, litigo di politica con la maizena, mi faccio raccontare dal prosciutto com'è e dov'è San Daniele del Friuli. 
Loro non mi hanno risposto, ho sorriso così anche nel supermercato. 

Se e quando vedete a supermercato qualcuno dialogare col barattolo, non vi preoccupate, nell'era della comunicazione questo è almeno per me possibile. 
Potrebbe essere almeno per me una soluzione per la Gda creare prodotti parlanti, movibili auto promuoventi. Così mentre tornate a casa i pomodori vi raccontano del Vesuvio, vi forniscono anedotti culturali da scaricare con Le App., l'abbinamento col vino, e il metodo adatto a cucinarli. 

In fondo che vi frega di pensare?. 
Ci pensa il marketing per tutti noi. 





venerdì 4 aprile 2014

L'applicabilità della legge di Murphy.

Non credevo fosse vera …alcuni la conoscono bene, altri l'hanno letta sganasciandosi. Nella sua reale completezza ha una cera e sicura manifestazione. Esiste essa è. Ha un solo antitodo la risata.

Lunedi mattina sono in ritardo, la macchina l'ho rotta la settimana scorsa anzi l'avrei rottamata se o avessi di che pagarne il conto. Resto e sono in attesa di non so quale miracolo per ripartire, ma insito non mi arrendo. Comunque la giornata è piovosa, è cominciato il freddo.
Inciso : Nel corso degli ultimi tre anni dico tre anni, non una cosa, non una si è manifestata corretta liscia e lineare, il mio proverbiale culo la mia sagacia il mio intelletto sono stati polverizzati davanti alla realtà di un destino misero, nero e profondamente angosciante. Ciò detto.
Ogni qualvolta ho creduto per una nano secondo di raddrizzare la curva discendente che mi sta letteralmente uccidendo, con Branko il capodistriano (quello dell'oroscopo del Messaggero) e Rob Bresny che mi dicono da un mese che è finita (ma finita De chè), comunque decido di fare un ulteriore tentativo, l'ennesimo

Negli ultimi tre anni per svangare il lunario ho fatto di tutto, venditore porta a porta, cameriere, volantinatore folle, bracciante, cameriere, aiuto barista, artista di strada, djs, producer, pubblico televisivo, telefonista, ricercatore statistico, impiegato, magazziniere, corriere per una associazione benefica, pony, fotografo, questuante, verniciatore, edile, tutti lavori durati al massimo tre mesi sempre con stipendi sotto la media della sopravvivenza. Queste cose mi hanno sviluppato una certa caratteristica alla indigenza e una fame notevole.
L'unica cosa che non mi è mai mancata sono i guai.
A quelli sono talmente abituato che alle volte davanti all'ennesima sciagura me la rido.



Ho comprato uno scatolone per metterceli dentro i documenti dei guai in forma cartacea, con su scritto “Dio abbi pietà di me”.
Ora sono determinato a cambiare la scritta con un MO Basta, co'sto “Saturno contro” stampato già per prova sul frigo vuoto. Devo uscire da sta cosa.




Comunque sia la motorella va bene, e parte, per oggi, ho la giacca da neve, se parte bene, poi se riesco vado da Angelino a montare il parabrezza almeno non m'arrivano le secchiate di acqua. Esco e parto. … via verso ROMA CENTRO svalicando le disgrazie sono sicuro che andrà tutto bene ….





mercoledì 26 marzo 2014

Joyce che di osterie se ne intendeva

LIBERO secondo Claudio Magris 
dal Corriere della Sera 2009. 




Joyce, che di osterie se ne intendeva, amava molto quelle triestine, dove spesso la sera beveva più del giusto e arricchiva la sua familiarità con il fluire caldo e impuro della vita, ritrovandolo anche nel farfugliare degli ubriachi e in quella corposa espressione dialettale che sarebbe più tardi riaffiorata nella sua pagina, come per esempio il Conte dalle braghe corte nel Finnegans Wake.



L’uomo, secondo un vecchio detto, è un viandante sulla terra e ogni tanto ama sostare in pace, sedersi in una chiesa o in un’osteria, che a diverso titolo offrono pane e vino e non domandano niente a chi entra, ma lo lasciano riprender fiato. Anche un’osteria può essere un piccolo presepe in cui sostare dopo il monotono e assillante errare della giornata. Una di queste è certo l’amabile locanda in via della Risorta, a pochi passi dalla casa di Joyce. La piccola strada che sale ripida verso San Giusto ricorda, nella sua appartata malinconia, certe vie di Praga, dimesse e misteriose. 


Il proprietario, il mitico Libero ovvero Slobodan, croato italianizzato e la cui famiglia è a sua volta di lontana origine italiana, sarebbe probabilmente imbarazzato se gli si chiedesse di definire univocamente la sua nazionalità. Gli anni di Joyce sono lontani, ma il genius loci si è preoccupato di stabilire una continuità epica con il passato joyciano di quelle strade. Narratore sempre in vena di commentare i bislacchi avvenimenti del giorno, Libero parla una lingua che, sia per le espressioni usate sia per la voce che si mangia le parole in un borbottio progressivamente indistinto, sembra un monologo joyciano, altrettanto difficilmente comprensibile, anche se alla fine ci si accorge di aver capito quasi tutto e comunque di aver afferrato il senso di quel mormorio.


L’osteria ha due stanze; in una, quella dove ci sono anche il banco di mescita e la piccola cucina, c’è pure, sovrastante i tavoli dove si gioca a carte, una finta televisione, una specie di scatolone illuminato che simula uno schermo. Ma è nell’altra saletta, sopraelevata di qualche gradino, insieme desolata e accogliente con le sue panche e pareti di legno, che Libero si siede insieme alla gente con cui vuole conversare, mandando via altri clienti e invitandoli ad andare a bere una birra da un’altra parte, tanto. aggiunge, è ugualmente buona . 

Libero ha avuto una vita varia e colorita, al di qua e al di là della frontiera fra l’Italia e l’ex Jugoslavia, tuttavia non ama parlare di sé, bensì dei progetti e delle invenzioni cui si è dedicato. So bene, mi ha detto una volta nel suo linguaggio irripetibile che ogni traduzione appiattisce, che Lei vorrebbe sentire qualcosa della mia vita, ma non mi interessa, è il mondo che è interessante, non la mia storia. Così, del difficile periodo in Croazia, durante il quale aveva avuto la bella idea, mentre faceva il servizio militare nell’esercito jugoslavo in un momento di tensione politica con l’Italia, di chiedere l’opzione per la cittadinanza italiana. Non evoca i momenti più avventurosi. È libero, come vuole il suo nome, perché non si preoccupa di se stesso ed è quindi preservato dalle ansie e dalle fobie di chi è prigioniero del proprio io. 

Come non è imbarazzato, nonostante la sua età non più verde, quando si tratta di mettere alla porta gente molesta o attaccabrighe, non rimane titubante dinanzi alla realtà . Nella sua osteria si è a casa e se dovesse un giorno chiudere ci si sentirebbe un po’ sfrattati; è uno di quei luoghi in cui si lasciano pezzi della propria persona, come si lascia un ombrello in un caffè, e perdere quei luoghi è perdere un po’ se stessi. Là dentro si sta bene, ma fuori è buio e freddo e, a differenza di quella notte di Natale a Betlemme, non si sentono cori di angeli che annunzino gloria a Dio nei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà. La quiete della strada dove si apre l’osteria fa presto a diventare una deserta e vuota solitudine. E allora anche un canto di santi bevitori può’ essere già qualcosa, un’accettabile supplenza del coro degli angeli”.   

mercoledì 19 marzo 2014

Godzi e FaHrenheit 451.

Godzilla sogna. 
In sogno gli si presenta Dio, tutto coperto di squame, sputando fuoco. Dice a Godzilla che si vergogna di lui. Dice che dovrebbe fare di meglio. 
Godzilla si sveglia madido di sudore.
Nella stanza non c'è nessuno.
Godzilla si sente in colpa. Ha vaghi ricordi di essersi svegliato e di essere uscito a distruggere una parte della città. S'è ubriacato come una zucchina, ma non riesce a ricordare tatto quel che ha fatto. 

Forse lo leggerà sui giornali. Si accorge di puzzare di legna bruciata e plastica fusa. C'è roba appiccicosa tra i suoi alluci, e ha il vago sospetto che non si tratti di sapone.
Si vuole ammazzare. Va a cercare la sua pistola, ma è troppo ubriaco per trovarla. Sviene sul pavimento. Questa volta sogna il diavolo. Somiglia a Dio, solo che ha un sopracciglio che gli passa su entrambi gli occhi. Il diavolo dice che è venuto a prendere Godzilla.
Godzilla si lamenta e lotta. Sogna di alzarsi e di tirare pugni al diavolo, di soffiare inutilmente fuoco contro di lui.
Il giorno dopo Godzilla si alza tardi, devastato dalla sbronza. Ricorda il sogno. Telefona alla fonderia e si dà malato. Passa la maggior parte della giornata a dormire. La sera, legge quello che ha combinato sui giornali. Ha fatto dei danni seri. Ha incenerito una grossa area della città. C'è una foto molto nitida di lui che stacca la testa di una donna a morsi.
Quella sera riceve una chiamata dal direttore della fabbrica. Il direttore ha letto il giornale. Dice a Godzilla che è licenziato.
Godzilla in riabilitazione Joe.  R.  Lansdale 




“Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato,  in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l’albero,  o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là. Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos’altro che porti poi la nostra impronta. La differenza tra l’uomo che si limita a tosare un prato e un vero giardiniere, sta nel tocco, diceva.


Quello che sega il fieno poteva anche non esserci stato, su quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà  per tutta una vita”. 

Offri al popolo gare che si possano vincere ricordando le parole di canzoni molto popolari, o il nome delle capitali dei vari Stati dell'Unione o la quantità di grano che lo Iowa ha prodotto l'anno passato.
Riempi i loro crani di dati non combustibili, imbottiscili di "fatti" al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri d'essere "veramente bene informati".
Dopo di che avranno la certezza di pensare, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno.
E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi.
Non dar loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia affinché possano pescare con questi ami fatti ch'è meglio restino dove si trovano.

Con ami simili, pescheranno la malinconia e la tristezza.

                                     Fahrenheit 451 di Ray Bradbury